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28/04/2020   HIGH FIDELITY (HULU, SERIE TV)
  La serie musicale del momento, l'approfondimento di Samuele Conficoni

Diffusa a febbraio su Hulu, piattaforma di streaming on demand controllata per la maggior parte da Disney, la prima stagione della serie tratta dal celebre romanzo di Nick Hornby è un caos ordinato di citazioni, riflessioni, emozioni dove contemporaneità e vintage ingaggiano una lotta romantica e appassionata, influenzandosi e flirtando a vicenda. Caratterizzata da una discreta fotografia che, con una patina di malinconia, dà vigore agli ambienti newyorchesi che dall’inizio alla fine racconta, la serie, divertente e godibile, apre tante questioni cruciali e prova a offrire alcune risposte.

Trasformato in serie, il romanzo di Hornby, che già aveva dato vita a un film cult con John Cusack e Jack Black nel 2000 per la regia di Stephen Frears, subisce sostanziali modifiche. Le più evidenti sono quelle tese a diminuire l’impatto di quel velato maschilismo che è percepibile un po’ ovunque sia nel libro sia nel film. La trama resta pressoché invariata e, attraverso dieci episodi di circa mezz’ora ciascuno, seguiamo le vicende di un negozio di dischi e delle persone che ruotano intorno a esso, appassionate di musica, catalogazioni e classifiche. Ma l’aspetto meramente maniacale nel plot non viene mai esagerato, diversamente dal libro e dal film. Gli autori della serie, a tutti gli effetti una rom-com, dipingono personaggi che non scimmiottano i loro alter-ego passati. E, anzi, nei rari momenti in cui questo accade percepiamo un certo fastidio, come se fossimo di fronte a una forzatura gratuita. A cambiare, inoltre, è anche l’ambientazione. Dalla Londra del libro e dalla Chicago del film si passa ora a Crown Heights, Brooklyn, dove si trova il negozio di dischi Championship Vinyl.

La protagonista, Robyn Brooks, è una lei, Zoë Kravitz, anche produttrice esecutiva (come lo è Nick Hornby) della serie. Kravitz è legata indissolubilmente, per natura e per sorte, a una parte e a una serie come queste. Figlia di Lenny e di Lisa Bonet, che vent’anni fa fece parte proprio del film di Frears, è la figura migliore che potesse interpretare lo slittamento che, partendo da John Cusack, concede alla narrazione di addentrarsi in territori musicali che Cusack aveva più difficoltà a esplorare. Se, infatti, anche nel film comparivano hip-hop, soul e altri generi prevalentemente black, lo spostamento del focus da Cusack a Kravitz permette di dare molto più spazio alla musica nera. Inoltre, le connessioni di Kravitz con il mondo della musica contemporanea (nell’ultimo album di Janelle Monáe, Dirty Computer, compariva in “Screwed”) certificano questa sua vocazione.

Al di là di queste modifiche, le caratteristiche principali di libro e di film restano invariate. Vengono indagate le relazioni amorose e le vicende personali di Rob, che gestisce il negozio, e dei suoi amici e collaboratori, l’introverso Simon (David Holmes) e l’aspirante artista Cherise (DaVine Joy Randolph). Sullo sfondo, significativi quanto i personaggi centrali, vi sono Mac (Kingsley Ben-Adir), il più recente ex di Rob, e Clyde (Jake Lacy), il suo nuovo (e non troppo serio) crush. Queste variazioni rappresentano il trionfo di ciò che per svariati motivi non compariva nel libro e nel film. Con donne mixed o nere in ruoli centrali, un femminismo mai troppo marcato ma sempre presente e queers che affollano le vite dei personaggi pare di essere di fronte a dei correttivi dell’originale. (Su questo potremmo – e dovremmo – dilungarci, ma non è questa la sede adatta. Basti dire che da diversi anni negli Stati Uniti molte firme di spicco osservano con sospetto i reboot femminili, ritenendo che attraverso di essi le donne siano costrette a rivivere storie scritte per uomini anziché creare un proprio percorso).

La serie, come il film, inizia con la protagonista che comincia a esporre la sua “Top 5 All-Time Most Memorable Heartbreaks”. Mac è ritornato a Brooklyn con la nuova fiamma e questa notizia è destinata a sconvolgerle di nuovo la vita. Scivolare, tuttavia, da una rilettura ambiziosa e intrigante, che la serie sembra promettere e che a tratti raggiunge, a un pericoloso concentrato di cliché è più facile di quanto si pensi. Nel corso dell’opera, infatti, alcune cadute ci sono, momenti dei quali non si riesce a comprendere il significato. Si pensi alla scena nella quale Cherise, mentre sta vendendo un suo disco, condanna in toto Michael Jackson per i suoi presunti crimini e ottiene una replica stizzita di Rob che a sua volta accusa Cherise di ascoltare quel tizio, Kanye West, che indossa il cappello del MAGA, abbreviazione della celebre frase di Donald Trump “Make America Great Again”. I ragazzi che rubano vinili per creare samples nel loro garage vengono seguiti e minacciati da Rob, che però ne comprende le buone intenzioni e, cambiando idea in un istante, concede loro la possibilità di continuare in questa “operazione” purché poi restituiscano i dischi. Zoë Kravitz è perfetta, senza dubbio la punta di diamante dell’opera, e risulta persino più convincente di Cusack nei monologhi, nell’outfit e nella sua splendida e spontanea coolness. Ma l’autocommiserazione nella quale il personaggio è gettato è piuttosto piatta, e allo stesso modo i suoi poco convinti interessi per un ragazzo un po’ nerd ma sinceramente innamorato di lei, Clyde, e per un immaturo e menefreghista cantautore scozzese, Liam, tradiscono una sceneggiatura a tratti troppo banale.

Un altro elemento cruciale per provare a comprendere l’aspetto didascalico di questa prima stagione è la lotta che contemporaneità e vintage ingaggiano. È una lotta simbolica, neanche troppo esplicita, sottolineata dalla fotografia malinconica di Carmen Cabana. Essa sembra indicarci – nelle minuziose riprese del negozio di dischi, dell’appartamento spazioso e freddo di Rob, di alcune strade di Brooklyn – che si può rimanere al passo coi tempi, aggiornarsi, rimanendo perfettamente fedeli a sé stessi e continuando a sognare un’era che ormai non c’è più, come quella del vinile e del negozio di dischi perennemente semi-deserto. I Fleetwood Mac convivono con Notorious BIG, del quale una splendida immagine spicca nel negozio. Si notano i dischi di Jay Reatard e di Tyler, The Creator, e nell’ufficio di Rob sono appesi i poster di Prince e Alex Chilton. Come nel film del 2000 non mancano cenni alla Beta Band. La figura di riferimento di Rob è David Bowie, sorta di sua divinità e guida, e al suo fianco ci sono Prince e Fleetwood Mac. Questo è ancora oggi High Fidelity, celebrazione senza tempo di quella passione viscerale per la musica che finisce per diventare essa stessa la vita dei personaggi. Non mancano il fanatismo, l’ossessiva maniacalità di voler classificare e conoscere, il sottile dissing che l’appassionato muove nei confronti del frustrato e cinico critico musicale: semplicemente questi aspetti non sono più al centro. Ciò che sembrano suggerire gli autori è che libro, film e serie possono avere ciascuno il proprio universo di riferimento, la propria indipendenza.

L’aspetto migliore della serie, neanche a dirlo, è la selezione musicale. Ci sono momenti brillanti costruiti con l’aiuto di canzoni perfette per le situazioni nelle quali compaiono. Gli OutKast, che con “Prototype” concludono la playlist per cuori infranti che Rob prepara per Mac, e lo spassoso cameo della cantante dei Blondie Debbie Harry, che balla nel salotto di Rob e le dà consigli sentimentali mentre risuona “Heart of Glass”, chiudono due episodi molto convincenti. Una corsa notturna di Rob è cullata dalle note della splendida “Nikes” di Frank Ocean, interrotta per lasciar spazio a una telefonata. L’incursione della sublime “Pink Moon” di Nick Drake è forse troppo rapida per giustificare un suo utilizzo nella trafelata passeggiata durante la quale Rob s’imbatte per caso in Mac. Ma il Bildungsroman che è High Fidelity è fatto anche di flash come questi, improvvise illuminazioni o inattese scoperte che non devono essere indagate più a fondo di così. La loro carica di rivelazione sta nella patina di mistero e di precarietà che le avvolge.

Una di queste illuminazioni, il momento di svolta della serie intera, avviene nel bellissimo episodio “Uptown”, quando Rob decide di non voler essere più una asshole. Arriva all’interno di una storia spassosa ma significativa che il film aveva addirittura deciso di trascurare. Una donna ricchissima che sta per divorziare decide di vendicarsi del marito, che l’ha abbandonata per una ragazza più giovane, vendendo, a insaputa di lui, la sua sterminata e preziosissima collezione di dischi a soli $20. Si tratta di un prendere o lasciare, tutti quanti per quella cifra o nessuno. Rob, che è andata lì con Clyde, si trova di fronte a una scelta etica di enorme difficoltà. La faccenda diventa ancor più complessa quando Rob nota che nella collezione dell’uomo c’è una prima edizione rarissima dell’LP The Man Who Sold the World di David Bowie che desidera sin da ragazzina. Persuasi dalla moglie, Rob e Clyde decidono di raggiungere il bar dell’hotel dove alloggia il marito infedele per capire di che tipo di persona si tratti. È qui che avviene qualcosa di decisivo nella psiche di Rob. Con il marito infedele, un maschilista strafottente e represso interpretato magistralmente da Jeffrey Nordling, Rob discute di un live di Paul McCartney & the Wings. L’uomo, cocciuto, insiste nel ritenere che il disco sia uscito nel 1984. Ma Rob sa che non è così, sa che l’album è uscito nel 1976. Glielo fa notare più volte, ma viene costantemente zittita e ignorata dall’uomo. I suoi commenti saccenti e misogini la fanno infuriare a tal punto che ora è convinta che deve comprare quei dischi, tutti quanti, a quel ridicolo prezzo.

Questa illuminazione, però, è un falso indizio che prepara la rivelazione. Ritornata a casa della donna Rob decide che non comprerà nulla. La musica, dice, spetta a chiunque, anche alle teste di c—o. Lei e Clyde si congedano mentre ci si prepara a un colpo di scena finale che corregge le cose e regala un sorriso. Ma è durante il viaggio di ritorno che si raggiunge la climax dell’intero episodio. Clyde fa notare a Rob che la sua decisione di non acquistare i vinili deriva dal fatto che teme che anche a lei possa capitare una cosa del genere. Teme che possano privarla dei dischi se si comporta da asshole. La declinazione al femminile del nuovo High Fidelity porta con sé una confessione spiazzante. È un’ammissione di colpa e anche un forte segno di maturità, che il libro risolve in poche pagine e che il film preferisce cassare. Ci stiamo domandando se anche noi ci comportiamo bene per paura che possano privarci della nostra amata collezione di dischi, alla quale teniamo più della nostra vita. Ci chiediamo se non facciamo gli s—i solo perché c’è la solita spada di Damocle che penzola sulle nostre teste. E, anziché rassicurati, a questo punto ci sentiamo scoperti. (Samuele Conficoni)