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news - rassegna stampa

03/03/2018   BOB DYLAN
  1988-2017. Dell’iceberg la punta: 30 anni di ''Never Ending Tour'' in 30 performance memorabili, di Samuele Conficoni - 3° puntata

Puntata 3 di 5

Premessa
Durante il suo Never Ending Tour, abbreviato anche con la sigla “NET”, iniziato il 7 giugno 1988 in California e tuttora in corso, Bob Dylan ha tenuto, a oggi, 2903 concerti. L’ultima data del 2017 è stata a New York il 25 novembre; la prima del 2018 sarà a Lisbona il 22 marzo. Dal 1988 a oggi, Dylan non si è mai preso un solo anno di pausa, tenendo una media di quasi 100 show all’anno. Per celebrare il trentesimo anniversario di questa infinita installazione musicale, Samuele Conficoni ha selezionato trenta esibizioni in ordine cronologico, una per ciascuna annata, in modo tale che ogni singolo anno sia così rappresentato all’interno della lista. La pretesa non è certamente quella di essere esaurienti (e chi mai potrebbe esserlo?), né quella di indicare la miglior performance di ogni anno – anche perché è impossibile farlo, e ciascuno avrebbe le proprie preferenze –, bensì di presentare al lettore una serie di concerti rappresentativi ciascuno del tale anno, della particolare fase creativa che Dylan stava attraversando e della sua evoluzione sui palcoscenici, con un occhio particolare ai passaggi di Bob in Italia.

#13: 19 settembre 2000 – Newcastle, Inghilterra.
Con una pratica consolidatasi già dall’anno precedente, anche questo show, come quasi tutti quelli del 2000 e del 2001, inizia con un traditional, “Duncan and Brady”, famoso soprattutto nella versione di Dave Van Ronk, grande amico di Dylan. Segue il classico “Times They Are A-Changing”: Bob è scintillante nei suoi arpeggi e nelle sue pennate di chitarra acustica; segue la rara “Delia”, altro classico della tradizione blues; ma a dare lo scossone definitivo alla serata è una magistrale “Tangled Up in Blue”, sempre magnifica, ogni anno arrangiata in maniera diversa, l’esperimento d’arte più vivo tra i tanti che Bob ci ha regalato. Le rarità “Country Pie” e “Standing in the Doorway” sono eseguite molto bene: la band, sempre di cinque elementi, Bob compreso, è precisa, schematica, non lascia nulla al caso e rende ogni nota piena di significato. Il canto di Bob è sommesso, un po’ rattristato, ma dal suo timbro rauco escono, come al solito, sfumature e interpretazioni che solo lui può veicolare. “Standing”, in particolare, è di una tristezza e freddezza uniche, ed emoziona in maniera estrema. Altre rarità sono “Tell Me That It Isn’t True” e “The Wicked Messenger”, riarrangiate e molto più malinconiche rispetto alle loro versioni originali. In mezzo c’è anche una “Stuck Inside of Mobile” colossale. Il finale regala ulteriori magie: gli show del 2000, 2001 e 2002 sono particolarmente lunghi, e l’encore vede una “Like a Rolling Stone” magistrale (d’ora in poi abbreviata in “LARS”), una “Don’t Think Twice” leggerissima e di un cinico da far paura, una “Man of Peace” sempre bella quando viene (molto raramente) eseguita, e una “Forever Young” sussurrata, dolcissima; la conclusione è affidata alla poetica e rumorosa “Highway 61” e all’inno “Blowing”. Uno show deciso, ben levigato, che attraversa tantissimi stati d’animo e generi diversi.

#14: 19 novembre 2001 – New York City, New York.
Sono trascorsi appena due mesi dall’attentato alle Torri Gemelle e New York è ancora scossa. La patria artistica di Bob – che era arrivato lì nel gennaio del 1961 e ha scritto lì alcune delle canzoni più rivoluzionarie e poetiche di tutti i tempi – è in subbuglio, avvolta da un manto di desolazione e di tristezza. Bob sfodera una performance straordinaria, come se volesse metaforicamente abbracciare la città e la sua gente e accollarsi il loro dolore, lui che continua a possedere alcune case lì ma che vive prevalentemente in California da molti anni. Lo show inizia con un altro traditional amatissimo da Dylan, “Wait for the Light to Shine”, un classico della tradizione gospel, e continua con “It Ain’t Me” e “Hard Rain”, entrambe sentitissime. Viene eseguito anche il brano “Searching for a Soldier’s Grave”, reso celebre da Hank Williams, abbellito dai cori della band. “Just Like a Woman” è dolcissima; “Lonesome Day Blues” è un’esplosione sporca e cattiva di rabbia e risentimento, mentre una splendida “High Water” è forse l’highlight dell’intera serata. “Tangled Up in Blue” è al solito lunghissima, sempre più modificata nella melodia e nell’interpretazione rispetto alla versione originale, che è stata cancellata totalmente dalle oltre (a oggi, cioè a fine 2017) 1636 performance. Dylan rispolvera “John Brown”, la canzone anti-militarista di inizio anni Sessanta, proprio quando un attacco all’Iraq da parte degli Stati Uniti è già presentito e fa ipotizzare un ulteriore conflitto armato nel Medio Oriente. Dylan non parla mai dal palco, ormai da tanti anni, ma le sue scelte in scaletta non sono quasi mai casuali. Dal recentissimo Love and Theft viene eseguita anche “Sugar Baby”, malinconica e cinica. “Things Have Changed”, il brano che gli ha fruttato la doppietta Golden Globe e Academy Award (Oscar) a inizio 2001, è ormai elemento fisso delle scalette, e risulta una gemma assoluta. A concludere il bellissimo e sentitissimo show sono “LARS”, “Forever Young”, una devastante “Honest with Me”, e l’accoppiata “Blowing” e “Watchtower”, certezze inossidabili in questa annata.

#15: 4 agosto 2002 – Augusta, Maine.
Gli show del 2002 raggiungono vette poetiche e musicali incredibili. Anche le scalette continuano a essere piuttosto varie e imprevedibili. Lo show di Augusta inizia con “Humming Bird”, un altro dei classici della tradizione folk con cui Dylan ama aprire i concerti in questo periodo. Segue “The Man in Me”. A splendere è la solita, atroce, devastante “If You See Her, Say Hello”, con testo ulteriormente cambiato rispetto ai concerti degli anni precedenti: se già l’armonica iniziale squarcia il cuore, il finale non lascia adito a dubbi e fa sobbalzare: “If she’s passing back this time / and it couldn’t be too quick / please don’t mention her name to me / just the mention of her name makes me sick”, dove “sick” può indicare anche un certo disgusto cinico e freddo nel sentirla nominare, e non per forza un dolore relativo alla mancanza di questa “lei”. Treni in una corsa folle sono “Tombstone Blues” e “Tangled Up”, mentre la rivelatoria “Tears of Rage”, tratta dai Basement Tapes, conduce davvero – per rifarsi al titolo – alle lacrime. Il violino impazza, le chitarre acustiche fanno saltare e gridare, il ritmo è sempre sostenuto quando deve esserlo e lento, malinconico e indagatorio nei momenti maggiormente riflessivi. “Knocking” è bellissima in questa nuova veste, con accordi leggermente variati e i cori della band, mentre la sciocchina “Never Gonna Be the Same Again”, che su Empire Burlesque non convinceva, qui esplode e diventa una ballata apprezzabile. Colpiscono soprattutto i numeri tratti dal recente Love and Theft, come “Floater”, brano degno di un qualsiasi rapper statunitense, e la travolgente “Summer Days”. “Cold Irons Bound” è il solito diamante incastonato nella rabbia e nella cattiveria che Bob sa trasmettere in alcuni dei suoi pezzi: l’arrangiamento è potentissimo e la performance vocale, roca e ruvida, è da applausi. Concludono le solite “LARS”, “Honest with Me”, “Blowing” e “Watchtower”. Il pubblico saluta contento il Nostro ed esce dalla venue molto soddisfatto.

#16: 24 novembre 2003 – Londra, Inghilterra.
Tre concerti londinesi di fila, questa volta ciascuno in un piccolo teatro diverso della capitale britannica (Shepherd’s Bush Empire, Hammersmith Apollo, Brixton Academy), chiudono il magistrale NET 2003 (98 date totali). Questi tre concerti londinesi sono, come al solito, sublimi. Scalette piene di rarità (tutte e tre le sere viene eseguita “Jokerman”, che era assente dagli show dal 1998 e che da allora non sarebbe mai più stata riproposta) e performance solidissima di Bob e della sua band. Moltissimi brani tratti da questi tre concerti sono stati filmati, e i video sono tuttora reperibili su YouTube. La serata del 24 è magica perché, tra le tantissime sorprese, compare “Romance in Durango”, brano pubblicato su Desire che non veniva eseguito dall’11 maggio 1976 a San Antonio, Texas (!!!), e che da allora è nuovamente scomparso dalle setlist. Sempre il 24 viene eseguita una fantasmagorica “Tough Mama”, con testo leggermente modificato rispetto all’originale; c’è una “Million Miles” spettrale e colma di inquietudine; non mancano, poi, alcuni classici riarrangiati e dilatati, con la voce di Dylan sempre più cavernosa, bassa e ruvida, un mumble prossimo all’hip-hop, che intona con passione “Hattie Carroll” e le conclusive “LARS” e “Watchtower”. La band è sempre formata da cinque elementi, con Bob alla voce, alla tastiera elettrica (iniziata a suonare con continuità nell’autunno del 2002 e diventata lo strumento principale dal 2003) e all’armonica, con la quale regala alcuni assoli sublimi. Show sensazionale; io consiglio, ovviamente, di ascoltare attentamente tutte e tre le esibizioni londinesi (23, 24 e 25 novembre), tutte di altissimo livello.

#17: 11 giugno 2004 – Manchester, Tennessee.
Anche il 2004 è un anno di altissimo livello e di fatica considerevole (111 date totali) per Bob. Al Bonnaroo Festival Bob offre al pubblico una performance devastante, regalando anche alcune perle assolute. Si parte con due pezzi rari e pregiati tratti dal suo repertorio, “Down Along the Cove” e “Tell Me That It Isn’t True”, che subito regolano il mood della serata, indirizzando il tipo di performance verso sfumature prettamente country/folk. Ma è il terzo brano della scaletta a lasciare senza parole: Bob esegue una versione meravigliosa (oserei dire la versione definitiva) del classico folk-gospel “Samson and Delilah”, unica performance in assoluto da parte di Dylan di questo brano, reso celebre, tra gli altri, da Dave Van Ronk. L’esecuzione è semplicemente strepitosa. Segue un blues divertente, “Watching the River Flow”; ma subito dopo si ritorna nel country-folk puro, con la cover di “You Win Again” di Hank Williams. E già dopo cinque canzoni è chiaro che si tratta di uno show indimenticabile. La cosa assurda è che le sorprese non finiscono qui. In scaletta arrivano anche la cover di un brano di Merle Haggard, “Sing Me Back Home”, e un altro classico meraviglioso della tradizione statunitense, “Pancho and Lefty” di Townes Van Zandt, che Bob aveva eseguito sporadicamente tra il 1989 ed il 1993. In mezzo alcuni classici dylaniani, a ricordarci che Bob viene da quelle canzoni di Van Ronk, Haggard e Van Zandt, ma è diventato il più grande proprio perché, partendo da quelle, ha scritto pezzi inarrivabili: ci sono “Cold Irons Bound”, “Most Likely You’ll Go Your Way and I’ll Go Mine”, “Highway 61”, una eccezionale “Blind Willie McTell”, una “Don’t Think Twice” sospirata e, per concludere, la curiosa accoppiata formata da “Cat’s in the Well”, un blues leggerino e divertente che su Under the Red Sky non diceva granché ma che dal vivo convince, e dall’immancabile “LARS”. Concerto da brividi.

#18: 21 novembre 2005 – Londra, Inghilterra.
Cinque serate di fila (dal 20 al 24 novembre) presso l’intima Brixton Academy di Londra e due concerti a Dublino (26 e 27 novembre) concludono il trionfale NET 2005 di Bob (113 concerti totali). I cinque show a Londra sono semplicemente sensazionali e consiglio a chiunque di ascoltarli tutti – e, possibilmente, di impararli a memoria. Il NET raggiunge qui uno dei suoi apici in relazione alla variazione delle scalette e alla versatilità della band: 54 canzoni diverse suonate in cinque sere su un totale di 87 brani eseguiti è semplicemente fantascienza. Se, come già detto, oggi (2013-2017) Bob preferisce mantenere una scaletta quasi sempre fissa ed effettuare unicamente variazioni sul tema (ossia esaurire tutte le possibilità con cui la medesima canzone viene interpretata e arrangiata), nel 2005 era l’opposto: rarità, brani mai eseguiti prima di allora e mai più eseguiti dopo (il 21 Bob fa uscire dal cilindro “Million Dollar Bash”, un brano dei Basement Tapes, che resta a oggi una one-off performance), tanta improvvisazione per quanto riguarda gli arrangiamenti, ma una qualità sempre altissima – oltre, ovviamente, a un divertimento assicurato. Lo show del 21 vede anche alcuni brani eseguiti di rado come “Moonlight”, i classiconi “Times They Are A-Changing”, “It’s Alright, Ma”, “Johanna” e “Highway 61”, l’allora rarità assoluta “Waitin’ for You” (venne fatta debuttare questa sera e fu riproposta anche la sera successiva; scomparve poi dalle scalette fino al 2013, quando divenne un elemento fisso del set 2013-2015). Come primo brano dell’encore di tre pezzi ecco un’altra sorpresa assoluta: Bob intona le prime strofe, ritornello compreso, dell’epica “London Calling” dei Clash, proprio nella loro Londra, con il pubblico in visibilio totale (e il video su YouTube dimostra quanto gli spettatori fossero estasiati). La conclusione spetta alle immancabili “LARS” e “Watchtower”, bellissime. Anche quest’anno Bob suona solo la tastiera elettrica, utilizza molto l’armonica e la sua voce è sempre più un roco lamento che sembra provenire dall’oltretomba, che dà alle canzoni vecchie e nuove una consistenza originale e teatrale, con i testi recitati e sussurrati, reinterpretati con un occhio diverso e sempre proiettati nella situazione personale – ma riconducibili anche su scala globale e sociale – che il cantautore sta vivendo.