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news - rassegna stampa

28/02/2018   BOB DYLAN
  1988-2017. Dell’iceberg la punta: 30 anni di ''Never Ending Tour'' in 30 performance memorabili, di Samuele Conficoni - 2° puntata

Puntata 2 di 5

Premessa
Durante il suo Never Ending Tour, abbreviato anche con la sigla “NET”, iniziato il 7 giugno 1988 in California e tuttora in corso, Bob Dylan ha tenuto, a oggi, 2903 concerti. L’ultima data del 2017 è stata a New York il 25 novembre; la prima del 2018 sarà a Lisbona il 22 marzo. Dal 1988 a oggi, Dylan non si è mai preso un solo anno di pausa, tenendo una media di quasi 100 show all’anno. Per celebrare il trentesimo anniversario di questa infinita installazione musicale, Samuele Conficoni ha selezionato trenta esibizioni in ordine cronologico, una per ciascuna annata, in modo tale che ogni singolo anno sia così rappresentato all’interno della lista. La pretesa non è certamente quella di essere esaurienti (e chi mai potrebbe esserlo?), né quella di indicare la miglior performance di ogni anno – anche perché è impossibile farlo, e ciascuno avrebbe le proprie preferenze –, bensì di presentare al lettore una serie di concerti rappresentativi ciascuno del tale anno, della particolare fase creativa che Dylan stava attraversando e della sua evoluzione sui palcoscenici, con un occhio particolare ai passaggi di Bob in Italia.

#7: 20 ottobre 1994 – New York City, New York.
I tre concerti alla Roseland Ballroom di New York (18, 19 e 20 ottobre 1994) sono tutti e tre meravigliosi, brillanti ed emozionanti. Giocano molto su performance eccelse da parte di Bob e della sua band (ancora cinque elementi totali) e su interpretazioni vocali estreme da parte di Dylan, che si spinge in lamenti nasali graffianti e potenti, a misurare ogni parola di ogni canzone, lasciandosi trasportare senza paura in territori oscuri e pieni di inquietudine. I concerti del 1994 iniziano quasi tutti con “Jokerman”, classico da Infidels (1983), che però in scaletta compare solitamente poco e dopo questa annata diventerà una rarità assoluta; sono i brani che seguono, però, a rendere il concerto del 20 speciale. “If You See Her, Say Hello” è un pianto da tragedia greca, immobile e permeato dalla presenza di un fato ineluttabile, la performance vocale di Bob fredda e disperata; “Watchtower” è il solito treno elettrificato perfetto e potentissimo; poi arrivano altri due classici da Blood on the Tracks, “Simple Twist of Fate” e “Tangled Up in Blue”: i concerti del 1994 sono caratterizzati prevalentemente da performance come queste, ossia lente, dilatate, con lunghi intro, intermezzi e finali strumentali che allungano la durata di ogni brano, tanto che entrambi i pezzi raggiungono i nove minuti abbondanti. Altri highlight del concerto sono una “Positively 4th Street” impeccabile, una “God Knows” sorprendentemente punk, una “Joey” movimentata, una “Maggie’s Farm” eseguita splendidamente, e una conclusione rock con la riflessiva “My Back Pages” (bellissima l’armonica di Bob) e i due sfoghi finali, “Rainy Day Women” e “Highway 61”. E non mancano gli ospiti speciali: in questi due numeri conclusivi suonano la chitarra al fianco di Bob niente meno che Neil Young e Bruce Springsteen. Concerto esaltante.

#8: 17 dicembre 1995 – Philadelphia, Pennsylvania.
La tranche conclusiva di concerti del NET 1995 viene definita da critici e studiosi “Paradise Lost Tour” e vede una serie di esibizioni (per la precisione dieci) in piccoli teatri, dal 7 al 17 dicembre, molto fitte, con due serie di cinque concerti di fila e un solo day off. Patti Smith apre i concerti di Bob e quest’ultimo, dalla data del 10 dicembre a Boston, decide di cantare una canzone con lei nel proprio set. Lascia che sia Smith a scegliere: la decisione ricade su “Dark Eyes”, pezzo che chiudeva Empire Burlesque, e che cantata in duo risulta un’esperienza sensoriale indescrivibile. Il concerto conclusivo di questo mini-tour di dicembre è alla Electric Factory di Philadelphia. Come molti altri concerti del 1995, l’apertura è affidata a “Crash on the Levee”, registrata a inizio anni Settanta; un altro punto più o meno fisso di queste performance è l’esecuzione di “West L.A. Fadeaway”, brano dei Grateful Dead, band amatissima da Bob; “Dark Eyes” è potente e dolcissima: a conferma di ciò si visioni il video di tale esecuzione disponibile su YouTube (anche se la performance del video è di New York e risale a qualche giorno prima). A colpire allo stomaco per la bellezza e la potenza emanate sono “Senor”, “Every Grain of the Sand”, una semplicemente perfetta “Desolation Row” acustica con la band, e una “She Belongs to Me” da applausi. Chiusura affidata a una impeccabile “Knocking” (Patti Smith canta anche qui; Bob, come al solito, modifica e stravolge il testo della terza strofa, quella aggiuntiva) e a una furiosa “Rainy Day Women”. Esibizione di qualità altissima, professionale e non priva di picchi emozionali straordinari.

#9: 27 giugno 1996 – Liverpool, Inghilterra.
Nel giugno 1996 all’Empire di Liverpool vanno in scena due concerti stratosferici di Nostra Bobbità, il primo dei quali (quello del 26) vede in scaletta anche un brevissimo frammento di “Yesterday”, omaggio ai Beatles, e una conclusione pazzesca affidata a una “Girl from the North Country” spettacolare. Il concerto nel complesso più potente è però il secondo, quello del 27 giugno: sarà per la riproposizione dal vivo di “Seven Days” (outtake degli anni Settanta, suonato diverse volte durante la seconda Rolling Thunder Revue, nel 1976), sarà per una convincente “Under the Red Sky”, ma il livello generale della serata del 27 pare più alto di quello della precedente. “Just Like Tom Thomb’s Blues” è una visione mattutina di speranza e ispirazione, “Mr. Tambourine Man” acustica è appassionante e lisergica, “John Brown” (outtake degli anni Sessanta che in questi anni compariva spesso dal vivo) è una pugnalata all’addome, mentre convincono anche “To Ramona” e la rarità “When I Paint My Masterpiece”, davvero splendida in questa forma. Ma a riempire il cuore di bellezza sono – prima della conclusione classica affidata a “Rainy Day Women” – la cover dei Dead, molto presente in scaletta in quegli anni, “Alabama Getaway”, e una “It Ain’t Me, Babe” semplicemente perfetta. Applausi a scena aperta.

#10: 13 agosto 1997 – Hershey, Pennsylvania.
Difficile scegliere un solo concerto del 1997, annata con esibizioni di qualità altissima e con scalette piene di variazioni e rarità. Di fronte a una scelta così ardua seleziono l’unico dei due concerti dell’anno (e, in generale, dal 1978 a oggi) che contiene il classico “One of Us Must Know (Sooner or Later)”, tratto da Blonde on Blonde. Il meraviglioso brano era stato eseguito con continuità solo nel tour mondiale del 1978 per poi scomparire dalle scalette; ritorna sorprendentemente il 12 e 13 agosto 1997 come primo dei tre brani degli encore di questi due concerti, per poi scomparire di nuovo (e, a oggi, definitivamente). La performance è bellissima anche se un poco confusionaria (evidentemente non era stato provato a sufficienza e non era “fresco” nella mente di Dylan), ma risulta comunque notevole e splendido in questa nuova veste rassegnata e contenuta. Prima di questo pezzo, in ogni caso, c’erano stati undici brani eccelsi, come l’apertura affidata a un’altra rarità tratta sempre da Blonde on Blonde, “Absolutely Sweet Marie”, una “Ballad of a Thin Man” stupenda e un’altra rarità assoluta, “Tough Mama”, pubblicata nel 1974, qui con testo in parte riscritto. Segue subito un’altra rarità (!!!), questa tratta dai Basement Tapes, “You Ain’t Going Nowhere”, e un altro numero forsennato e divertentissimo, “Silvio”, scritta con Robert Hunter dei Dead e pubblicata sul poco convincente Down in the Groove del 1988, che dal vivo risulta però godibile e interessante. La cover “Cocaine Blues” è un elemento piuttosto fisso nelle scalette del 1997; ci sono anche “Tangled” e “Simple Twist of Fate”, sempre precise, perfette, e l’interpretazione vocale di Dylan non lascia dubbi su quanto egli sia rapito, aggrovigliato e preso da quelle parole così poetiche e sublimi. “Highway 61” esplode in un turbinio di distorsioni e si apre l’encore che, come detto, vede “One of Us Must Know” come sorpresa assoluta. Il concerto si chiude poi con due classici eseguiti come al solito benissimo, “Knocking” e “Rainy Day Women”. Wow!

#11: 30 & 31 marzo 1998 – Miami Beach, Florida.
Anche in questo caso, come avvenuto per il 1993, accorpo due concerti consecutivi perché simili tra loro sia nelle scalette che nel tipo di performance. In vista del tour primaverile sudamericano durante il quale avrebbe aperto per i Rolling Stones (con i quali avrebbe suonato “Like a Rolling Stone” in alcune date), Bob Dylan tiene due warm-up shows al Cameo Theatre di Miami Beach il 30 e 31 marzo 1998, esibizioni molto intime, con tante rarità e piene di esecuzioni straordinarie. Entrambi i concerti si aprono con la rara “To Be Alone with You”; il 30 marzo compare in scaletta la folk ballad “The White Dove” e ci sono tanti brani tratti dal meraviglioso Time Out of Mind, uscito l’anno precedente, come “Can’t Wait”, “’Til I Fell in Love with You” e “Love Sick”; c’è una meravigliosa “Queen Jane”, una “If You See Her” che porta alle lacrime e una “Born in Time” che oserei definire “definitiva”, migliorata nettamente rispetto alla fiacca versione album, di una poeticità incredibile. Il 31 marzo colpiscono soprattutto “Senor” e “You’re a Big Girl Now”, ma anche “One Too Many Mornings” è brillante; compare anche “Jokerman”, in una versione più pacata rispetto a quelle del 1994-1995, e “Stuck Inside of Mobile” è una perla assoluta. “It Ain’t Me, Babe” è in entrambe le serate semplicemente sbalorditiva. Con queste premesse, il tour sudamericano in supporto agli Stones non poteva che essere eccezionale.

#12: 9 novembre 1999 – Philadelphia, Pennsylvania.
Dal 1999 al (circa) 2002, Bob apre spesso i propri concerti con brani della tradizione folk, blues o gospel statunitense, come “Hallelujah I’m Ready to Go” (che apre questa esibizione), “Duncan and Brady” e “I Am the Man, Thomas”, prova ulteriore (come se non ce ne fossero altre centinaia o migliaia) che Dylan è rimasto e sempre rimarrà fedele a quel filone dal quale proviene e al quale sempre attinge quando compone e si esibisce in concerto. La serata alla Temple University di Philadelphia vede in scaletta un altro classico gospel, “A Satisfied Mind”, che Dylan incise su Saved nel 1980 ma che non aveva mai eseguito dal vivo, e che (a oggi) mai più avrebbe eseguito. L’esecuzione è emozionante, sentita; la voce di Bob negli anni è sempre più graffiante, roca, monotonale, ma dipinge con precisione chirurgica ogni angolo, sillaba o impressione di ogni canzone che esegue, diventando un pennello sottilissimo ma potentissimo. Secondo e terzo brano del concerto sono due pezzi tratti dall’album The Times They Are A-Changing: prima la sempre attuale “Hattie Carroll”, poi la dolcissima (ma al tempo stesso amara) “Boots of Spanish Leather”. Compare un altro classico, questa volta della tradizione country, “Folsom Prison Blues” dell’amico Johnny Cash, in una esecuzione trionfante e bellissima. Alcuni membri della band si occupano anche dei cori, che risaltano proprio in “Satisfied Mind”. Colpiscono anche “Shooting Star” e “Man of Peace”, rara ma eseguita diverse volte quell’anno; un pezzo molto presente in quegli anni è “Not Fade Away”, brano che molti anni prima era stato coverizzato anche dagli Stones; meravigliosa è anche la performance sommessa, quasi più la recita di una poesia, di “Don’t Think Twice”. Il concerto si chiude con una “Blowing” sempre più rimaneggiata e sempre più vicina alla tradizione spiritual dalla quale deriva (Dylan la scrisse nel 1962 ispirandosi alla canzone “No More Auction Block”, cantata dagli schiavi afroamericani che fuggivano verso il Canada) e con una sempre precisa e divertita “Highway 61”.

(continua...)