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20/11/2024
11/02/2018 SANREMO 2018 - IL NOSTRO COMMENTO (SEMISERIO)
Il Festival secondo ''Sua Acidità'' Enrico Faggiano
Ermal Meta e Fabrizio Moro – Non mi avete fatto niente – (arriva 1°) – A prova di come ad unirsi si vince, per il solo fatto che sono in due gruppi di pubblico a televotarti, specie se sei anche figo. Alla fine va bene il concetto di unire la sola retorica buonista festivaliera ad una melodia radiofonica e non ai soliti mattoni da omelia. Però c’è qualcosa per cui Fabrizio Moro proprio non convince, forse quella sua faccia da alternativo sanremese, o da quello che ha sempre qualcosa di serio da dire, boh. Canzone riciclata da altra, si aprirà dibattito. Vince, poteva andare peggio. E meglio.
Lo Stato Sociale – Una vita in vacanza – (arriva 2°) - Caproni: avessero tolto quella parolaccia dal ritornello, sarebbero diventati gli eroi di tutte le baby dance estive sulle spiagge, in modalità Gabbani. Per il resto sono bravi a farsi trovare pronti nell’occasione in cui le luci della ribalta si accendono su di loro, evitando di metterla in caciara come altri progetti simili del passato. Dite quello che volete, ma essere pronti al momento giusto non è da tutti. E, una domanda: ma la vecchia è la Vanoni che ha finito la tinta?
Annalisa – Il mondo prima di te – (arriva 3°) - Decognomata periodica, salta fuori per il solito brano, sanremese, di Annalisa. Fosse Chiara, Pina, Calogera, Sbirulina, sarebbe la stessa cosa. Ma un uptempo, anche solo per cambiare musica, proprio non lo vogliamo fare, o continuiamo a proporre le recite da prima Comunione? Però arriva da podio, e forse quindi lagnarsi funziona.
Ron – Almeno pensami – (arriva 4°) – Tocco di classe, che fa risalire Ron dopo svariate prove discretamente non discrete, con una canzone che è una buona, e non scarto di fabbrica, canzone di Dalla. Basta e avanza per uscire dalla massa, anche se è normale che la platea sanremese possa capire ma in parte. Missione compiuta, grazie, alla prossima e chissà. Ma tra lui e gli ex Pooh, la domanda è capire se per andare a Sanremo si debba prima passare dal tricologo.
Ornella Vanoni con Bungaro e Pacifico – Imparare ad amarsi – (arriva 5°) - Lei si porta due soggetti che paiono farle da stampella, e va bene il coraggio e tutto il resto. Ma oltre gli 80 il rischio è di sembrare uscita dal festival di Cartagine: il prodotto arriva dopo quella che è l’immagine, ormai non fresca, diciamo. Ormai siamo più a livelli da premio per la carriera, che non imitare Virginia Raffaele che imita Ornella Vanoni. Il “che è ‘sto premio che ho vinto?” finale, poi, pone ancora di più il dubbio: era lei, o l’imitatrice?
Luca Barbarossa – Passame er sale – (arriva 6°) - Alla fine è un ritratto sentimentale minimal-poetico, che difficilmente ricorderemo tra più di due settimane, ma che dimostra un briciolo di inventiva. Niente di clamoroso, però si lascia ascoltare. E, come alcune cose sanremesi, paga l’essere infilata in tanta di quella roba per cui non sei pronto, diciamo, ad aguzzare le orecchie quando magari ce ne poteva essere bisogno. Non stiamo parlando comunque di una meraviglia, eh, non illudiamoci.
Max Gazzè – La leggenda di Cristalda e Pizzomunno – (arriva 7°) - Rischia anche lui il problema di chi deve farsi largo tra altre diecimila cose, e quindi il non riuscire ad arrivare al bersaglio dell’ “adesso ascoltami, come sai fare tu”. E poi, abituati a tutte le sue meraviglie da cazzaro, quasi non lo si prende sul serio quando si prende sul serio: insomma, se invece di Cristalda e Pizzomunno avesse detto, che so, di Al Bano e Romina, sarebbe stato uguale, forse. E alla fine è come un bel pesce rosso in mezzo a 18 altri normali pesci rossi e un pesce giallo: non risalta.
Diodato e Roy Paci – Adesso – (arriva 8°) - Ci sono canzoni che arrivano e altre che non arrivano. Questa, personalmente, non mi arriva. Forse perché andrà meglio in radio che non dal vivo, forse chissà. Ha qualcosa, ma non abbastanza da far venir voglia di risentirla, chissà. Vattelappesca.
The Kolors – Frida – (arriva 9°) - A copiare gli N Sync ci avevano già pensato i Sottotono, e finì a sberle. Qui ormai siamo fuori tempo massimo e, volenti o nolenti, portano a Sanremo una loro canzone, e non una cosa fatta ad uso e consumo delle vecchierelle, già occupate nell’imitare quella dello Stato Sociale. Ergo, sanno a chi rivolgersi, e per quello che li riguarda centrano il bersaglio. Possono piacere o non piacere, però svolgono il loro compito, e forse fossimo sedicenni, chissà, ci aggraderebbero pure, dato che non nascondono quello che sono, e a chi si rivolgono.
Giovanni Caccamo – Eterno – (arriva 10°) - Come non sarà questo brano, perché andategli a spiegare che il copia e incolla non funziona, che non si risalta, che servono tante altre cose, e che per il Tavor si può chiedere altrove. Un tempo Battiato patrocinava Sibilla, ora Caccamo: è la prova di inevitabile senescenza?
Le Vibrazioni – Così sbagliato – (arriva 11°) - Riemergono rokkando rollando, con Sarcina che ormai è pronto per andare a “Tale e quale” a imitare Piero Pelù. Per il resto un po’ di blanda dozzinalità nel fare il proprio mestiere, senza particolari ispirazioni e limitandosi a mettere a dura prova, senza davvero un motivo, le corde vocali del cantante. Uah!, avrebbe urlato il Toro Loco.
Enzo Avitabile e Peppe Servillo – Il coraggio di ogni giorno - (arriva 12°) – Arriverà il giorno in cui a Sanremo non ci sarà la solita lacrimata su Scampia, che non è che a citarla ogni volta (ce ne fu una delegazione anche canterina, vero?). Prova di qualità, che non sempre è anche sinonimo di fruibilità, e vanno bene le liriche impegnate, va bene tutto, ma anche questa è una solfa trita e ritrita: almeno, parlando dei meno fortunati, Paolo Vallesi faceva frignare l’utenza. Qui sono sbadigli.
Renzo Rubino – Custodire – (arriva 13°) - Ancora senza essere diventato davvero popolare, ma che passando da Sanremo un anno sì e uno (quasi) pure, almeno riesce ad essere un po’ meno biodegradabile di tanti altri. Poi chiaro, ci vuole capacità interpretativa, e la voglia di mettersi lì ed ascoltare quello che ha da dirci. Cosa che può sembrare un pochino presuntuosa, forse, o no? Dai, anche tu, rallegrati, sei vivo, tra un po’ è primavera, le ragazze si scoprono, divertiti ogni tanto…
Noemi – Non smettere mai di cercarmi – (arriva 14°) - Il problema, cara mia, è che questa canzone te la dovrebbe cantare la canzone stessa, perché tu cerchi, cerchi, grattugi la tua voce in modo anche quasi buono per farti identificare, ma la canzone buona ancora non l’hai trovata? E che a riascoltare tutte le tue sanremate si fatica a distinguere il 2010 dal 2018? Dai, un po’ di allegria, ogni tanto, mica ti muore il gatto ogni febbraio di anni pari…
Red Canzian – Ognuno ha il suo racconto – (arriva 15°) - Brano rock anni '90, ed è un controsenso che una delle poche cose vive la porti il bassista dei Pooh. Quei Pooh, non i loro nipoti. Ergo, nelle corde di qualche altro sarebbe stata anche interessante, qui (rischio di bypass alla terza interpretazione) rischia di non essere presa sul serio, stranamente. Vince il derby, in attesa che il prossimo anno appaiano gli altri due: d’altronde, se in precedenza abbiamo visto la clonazione dei Dear Jack, almeno qui la carriera rende i giudizi più indulgenti.
Decibel – Lettera dal Duca – (arriva 16°) - Ma cosa serve che Ruggeri rimetta insieme la band se poi il brano sembra molto Ruggeri e poco Decibel? Vista da lontano, gli altri due paioni cloni ingrigiti di Baglioni, e non c’è nemmeno un particolare effetto nostalgia se non nel look (dai, vestirsi da Kraftwerk è per farmi felice, vero?). Serviva meno parlato e più synth, altrimenti cosa li può far riconoscere dal resto? E Bowie, citato nel titolo ma non dopo, che dice?
Nina Zilli – Senza appartenere – (arriva 17°) - Ragazza mia, riesci piano piano a capire che ogni tanto alzando il ritmo si tira fuori qualcosa, e ci porti una roba retorica, banale, donnesca nel peggiore dei sensi? Dai, ti preferiamo quando fai tardi che non quando ti lagni, ok? Perché ad ogni Sanremo c’è sempre, sempre, la canzone sull’orgoglio femminile eccetera, e non sempre si è la Mannoia del 1987… E alla fine si diventa retorici, benchè almeno l’aspetto, quello sì, un premio lo vince sempre.
Roby Facchinetti e Riccardo Fogli – Il segreto del tempo – (arriva 18°) - Segreto che loro non hanno scoperto, dato che non fossero loro parrebbero usciti da una orchestrina di paese. Però bello il progetto: c’è un programma su Rai3, “Non ho l’età”, che parla di amori nati (o rinati) in anzianità. Contattarli, please. Altrimenti, siamo a due soggetti che imitano Facchinetti e Fogli, dinstinguibili dal fatto che uno ha trovato chiuso il negozio delle tinte per capelli. Poi, di nascosto, attaccheranno le sottane della vecchietta ballerina? O, con il fatto che la canzone assomiglia ad un pezzo da catechismo (“Symbolum 77”, quello di “tu sei la mia vitaaaa”), faranno i bravi?
Mario Biondi – Rivederti – (arriva 19°) - Ormai appurato che certe fanciulle rimangono ingravidate al solo sentir far gargarismi, resta un eccellentemente inutile esercizio di stile, a dimostrar quanto è bravo. Ora tutti a farsi venire la raucedine per cantare come lui. Però, come tante cose festivaliere, dopo non rimane niente, se non appunto il mal di gola a chi cerca di imitarlo. Di fatto, si fosse messo nel testo ad elencare le qualità balsamiche di un aerosol sarebbe stata la stessa cosa.
Elio e le storie tese – Arrivedorci – (arriva 20°) - Troppo facile dire che “Appendi le scarpe al chiodo” fosse più adatta alla bisogna. Qui il brano ha un senso conoscendo la storia della chiusura (ma citare i Beatles di “alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai” non era meglio?), ma resta l’idea che sia un temino di terza media scritto da chi è già stato plurilaureato. Insomma, vanno bene i saluti, ma poteva davvero finire diversamente, chissà. Però l’apparizione di Supergiovane, alla fine, rende tutto più meraviglioso: ultimi, forse non sognavano di meglio.
I giovani – Vince uno che, come diceva uno più famoso, “Beati gli Ultimi”. Senza sorprendere più di tanto: specchio della manifestazione, dove si deve essere interessanti ma senza esagerare. Ce ne dimenticheremo, dai. Per fortuna?