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20/11/2024
16/10/2016 INSIDE ROBERT ZIMMERMAN: BOB DYLAN NOBEL 2016
di Samuele Conficoni
Per capire meglio tutto questo dovremmo partire dall’ultima, iconica scena del meraviglioso film “Inside Llewyn Davis” dei fratelli Coen, uscito nelle sale nel 2013, dove il protagonista – l’alter ego del folk singer Dave van Ronk – si avvia verso l’uscita del Gaslight Cafe di New York mentre alle sue spalle sale sul palco un giovane provinciale riccioluto. Di lui intravediamo solo la sagoma, ma quella sagoma, come quella voce, è inconfondibile: quel giovane cantautore che inizia a cantare “Farewell” sappiamo tutti chi è. Ed è come se il film simbolicamente chiudesse il sipario sulla storia circoscritta di un musicista geniale ma minore, Dave van Ronk, e aprisse la Storia a un altro musicista, Robert Zimmerman alias Bob Dylan. Un finale stringente e rivelatore di una pellicola magnifica, dove destino e talento si intrecciano di continuo. Quella scena documentava un momento qualsiasi di una carriera appena iniziata, che dopo oltre cinquant’anni ci ha portati qui oggi.
Sono un accanito seguace di Bob Dylan, e sono estramente contento che un artista che occupa da molti anni una parte così ampia della mia anima sia stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura «per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della tradizione della grande canzone americana». La motivazione dell’Accademia Svedese è bellissima, semplice ma profonda, e non lascia adito a fraintendimenti. Alcune inevitabili polemiche sono nate, tra gli addetti ai lavori e nel mondo della letteratura, ma molte di più – e a mio modo di vedere più autorevoli – sono state le voci di chi ha letto questo evento come un capitolo importante nella storia del premio e del mondo letterario in generale. Don DeLillo, anche lui tra i candidati alla vittoria, si è congratulato con Bob definendolo un genio che ha raccontato il suo tempo come pochi altri. Tra i tanti, sono arrivati anche i complimenti di Stephen King, Salman Rushdie, Obama, Tom Waits, Leonard Cohen. Voci significative, competenti, sensibili, che sovrastano quelle dei detrattori. Posso dire di aver avuto ragione sin dall’inizio: io ero convinto che Bob meritasse il Nobel, io l’ho sempre detto, ci ho sperato per anni; e alla fine l’ha ottenuto.
Una breve digressione è d’obbligo, perché per comprendere meglio l’arte di Bob Dylan occorre comprendere anche cosa significhi esserne un amante incondizionato e un fan di lunga data. Ho conosciuto la musica e la poesia di Bob Dylan nel 2005, a dodici anni. Già nel 2006 riuscii a vederlo in concerto a Pistoia. Fu un incontro epico e surreale per un me ancora bambino: Bob vestito di bianco se ne stava quasi nascosto nel lato destro del palco, in piedi dietro un organo, senza pizzicare minimanente la chitarra, proponendo ben pochi classici in scaletta (ma più di quanti ne proponga oggi) e stravolgendo le sue stesse canzoni. Fu una rivelazione. Da allora ho avuto l’onore di godermi altri cinque concerti: a Parma nel 2010, a Roma nel 2011, a Lucca e Bologna (due serate di fila) nel 2015. È nato in me un fanatismo a dir poco estremo, che mi ha reso un “dylaniato” convinto, uno studioso dei suoi testi e delle sue musiche. Sono uno di quelli che sin da subito pensò: “Quest’uomo merita ogni tipo di riconoscimento esistente per la grandezza della sua arte”. L’Oscar nel 2001, il Pulitzer alla carriera nel 2008, la Medal of Freedom nel 2012, il Nobel nel 2016: cose da fantascienza.
Un’arte che però, proprio perché convogliata nella forma-canzone, non era mai stata presa troppo sul serio in ambito accademico, se non negli ultimi due decenni negli Stati Uniti, grazie soprattutto a un personaggio stratosferico come Alessandro Carrera, professore universitario in Texas e tra i massimi studiosi al mondo di Dylan. Fu un altro professore, Gordon Ball, che nel 1997 propose per primo la candidatura di Bob al Nobel. Perché una canzone non può essere considerata una poesia? Se n’è dibattuto tanto ultimamente. Quest’anno, per la prima volta nella storia dell’Ateneo di Bologna, in un (bellissimo) corso della laurea magistrale in Italianistica – quello di Poesia Italiana del Novecento, per la precisione – si è deciso di trattare l’argomento canzone, la sua struttura e la sua storia; si discute di come la forma-canzone si inserisca nel panorama artistico e sociale novecentesco e cosa la avvicini o distanzi da una poesia “classica”. E proprio quest’anno Bob Dylan vince il Nobel per la Letteratura, la massima onoreficenza al mondo. Una coincidenza significativa di come le cose stiano cambiando; una coincidenza ironica e meravigliosa. Cercherò di limitare la mia gioia e proverò a spiegare brevemente e con obiettività le ragioni per cui secondo me Bob Dylan abbia meritato totalmente questo ambìto premio.
Robert Zimmermann era arrivato a New York nel 1960 da outsider – lui ci tiene molto a sottolineare la cosa nel documentario diretto da Martin Scorsese “No Direction Home” – e in breve tempo scosse il mondo intero: prima con “Blowin’ in the Wind”, “A Hard Rain’s Gonna Fall” e i cosiddetti brani di protesta, meravigliosi anche se limitati a due soli anni della sua produzione; poi con le cascate della trilogia elettrica ''Bringing It All Back Home''-''Highway 61 Revisited''-''Blonde on Blonde''. Da “Mr. Tambourine” a “Like a Rolling Stone”, da “Desolation Row” a “Sad-Eyed Lady” in poco più di un anno. Cose da marziano, impossibili per chiunque altro in tempi recenti e irripetibili persino per lui. “Quelle canzoni erano scritte quasi magicamente (...) A quei tempi potevo avere controllo sugli spiriti”, dirà in un’intervista per la CBS del 2004. Nel 1963 era in prima fila alla Marcia su Washington, era lì mentre Martin Luther King pronunciava il suo celebre discorso, e cantò “When the Ship Comes In” con Joan Baez. “Blowin’ in the Wind” e “The Times They Are A-Changing” diventarono inni generazionale e ancora adesso muovono le coscienze grazie alle loro parole profetiche, dal tono biblico, incise nella pietra e intrise di un senso di inevitabilità inquietante. Bob prese gli stilemi musicali e tecnici di Woody Guthrie e Leadbelly e li tradusse in poesia grazie alla sua sensibilità, segno dell’affacciarsi di una nuova epoca e di un nuovo gusto. Un ragazzo di poco più di vent’anni con un talento simile è una rarità assoluta. Il periodo cosiddetto di protesta finisce presto; è nel bienno successivo (1965-66) che Dylan alza ancora di più l’asticella e raggiunge le sue vette poetiche. Le liriche composte in questo periodo magico sono degne di entrare in qualsiasi antologia di letteratura americana novecentesca per la loro pregnanza e densità. Bob si ispira a Rimbaud, Eliot, Whitman, e avvicina i giovani alla lettura di questi poeti; legge la Bibbia e da lì trae una serie di immagini e situazioni apocalittiche e spaventose. Bob ottiene lo status di poeta anche grazie alle buone parole di amici e colleghi che lo ammirano incondizionatamente: poeta lo definisce Allen Ginsberg, che disse: “Se il suo obiettivo era fare poesia riproducibile in un juke-box, ci è riuscito perfettamente”.
Ma non finì qui. Bob, oltre a Ginsberg, conobbe Ferlinghetti, si ispirò al movimento beat e – cosa ancor più straordinaria – fu per loro una fonte di ispirazione; “flirtò” con Warhol e la sua arte in un rapporto di odio-amore estremamente ambiguo; scrisse in questo periodo un libro di prose poetiche, “Tarantula”, pubblicato nel 1967, non eccezionale ma pieno di spunti interessanti. Sono le canzoni il suo punto di forza, l’espressione vivente della sua forma mentis. “Mr. Tambourine Man” è la cavalcata onirica di un viaggiatore della mente, “Visions of Johanna” è la spettrale epifania di una forza oscura ma estremamente vitale, “Sad-Eyed Lady of the Lowlands” è la più grande canzone d’amore che sia mai stata scritta. Nel 1965 nasce “Like a Rolling Stone”, la canzone che, con i suoi sei minuti di ribellione e rabbia vomitate in una crudezza mai vista prima, ha ridefinito il canone stesso di canzone. Quante immagini straordinarie escono da quella penna. Il “Napoleone vestito di stracci”, la “donna dagli occhi tristi” che ha la “bocca di mercurio al tempo dei missionari”, il “fantasma dell’elettricità che ulula nelle ossa della sua faccia”, il “vagabondo misterioso che non vende alibi”, i “cerchi di fumo della mente”, le “nebbiose rovine del tempo”, gli “alberi spettrali, spaventati, buttati là fuori alle spiagge ventose”. Ogni verso che Bob ha partorito in questo biennio è atrocemente favoloso. I Beatles lo adoravano; i giornali crearono il celebre slogan “The Beatles say: Dylan shows the way” e i quattro ragazzi di Liverpool ammisero che senza le tappe precorse da Bob non sarebbero nati i dischi da “Rubber Soul” in avanti. Per DeLillo, intervistato il giorno dopo il conferimento del Nobel a Bob, i suoi testi sono sempre stati poesie: non perdono nulla della loro forza emotiva e artistica se letti senza musica, ma diventano ancora più potenti e devastanti se accompagnati da uno strumento. Come è stato ricordato dall’Accademia Svedese, anche gli scritti di Omero e Saffo erano in origine accompagnati dalla musica; oggi ci colpiscono nel cuore ugualmente anche se li leggiamo su carta. Aggiungo che anche molte delle rime di Dante erano musicate da Casella, ma non per questo oggi le riduciamo a miseri testi di canzone. Un testo parla per sé, qualsiasi siano le sua finalità o caratteristiche di riproducibilità.
E qui arriva il nodo cruciale: la letteratura è in crisi? È cambiata? Guarda a nuove direzioni o sta mutando la sua forma? La poesia, nel corso degli anni recenti, si è sempre di più allontanata dal pubblico, cercando di sopravvivere in una zona d’ombra accessibile a pochi, crogiolandosi nel suo voler essere a tutti i costi complicata. Contemporaneamente si faceva strada la canzone, forma di espressione più adatta al nostro tempo perché più immediata e memorizzabile, una categoria che sa colpire il pubblico su due versanti differenti: da un lato quello del testo, e dunque del suo intimo significato, e dall’altro quello della musica, che va ad arricchire e a completare le impressioni prodotte. Bob Dylan è stato il più bravo di tutti: si è inserito nella tradizione folk-blues americana e ha creato qualcosa di assolutamente unico nel suo genere. E se la canzone si è presa la responsabilità di diventare sempre più poesia è merito suo, dei rischi che lui ha deciso di correre, anche quando veniva criticato duramente dai giornalisti, perseguitato dai detrattori, provocato persino dai suoi sostenitori. Chi critica questo Nobel cerca evidentemente di nascondere una crisi della poesia “tradizionale” che ormai è sotto gli occhi di tutti. Oggi ancora di più possiamo dire che Bob ha raggiunto il suo obiettivo, fare della canzone una grande arte, come disse Ginsberg: solo che lui ebbe la lungimiranza di dirlo cinquant’anni fa. È estremamente positivo che l’Accademia di Svezia – da sempre attenta nel premiare i più meritevoli in ciascuno dei suoi settori di competenza – se ne sia accorta.
Per chi come me è cresciuto con le canzoni di Dylan, questo traguardo è un sogno che si avvera, una codificazione ufficializzata di qualcosa che più o meno tutti sapevamo, l'ennesima consacrazione di un genio la cui influenza sul mondo e sull'arte contemporanei è gigantesca e ancora lontana dall'essere quantificata con precisione. E dovremmo tutti essere grati a Bob.
(Samuele Conficoni)