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20/11/2024
01/01/2015 LA TOP 20 DEL 2014!
I migliori album dell'anno, secondo il nostro 'super redattore' Manuel Maverna
1. THE WAR ON DRUGS - "Lost in the dream"
Pronti, via: dieci ballate in quattro quarti, mid-tempo da tre accordi, dilatazioni da sette minuti ed oltre,
echi di Bob Dylan, Dire Straits, Bruce Springsteen, Wilco, Pan-Americana assortita e strasentita in un flusso
di essenzialità rassicurante: come un film che vorresti non finisse mai, storia ciclica, incessantemente
uguale a sé stessa. In apparenza semplicissimo: semplicemente perfetto
(brano migliore: An ocean in between the waves)
2. LIZ GREEN - "Haul away!"
Cantami, o Anti-Diva, di quello che ti pare. Di un altro tempo, di gesta erotiche di squaw pelle di luna, frulla
swing e cafè chantant, cabaret e romanza, blues e lied: intona pure su quella scricchiolante ribalta
tutto ciò che vuoi insieme alla tua orchestrina fuori moda, fallo per il tuo sparuto esercito di fedeli, delizia
quel pugno di estasiati ammiratori che ti venerano seduti su scomodi sedili di legno in un teatrino di periferia
(brano migliore: Haul away!)
3. CLOUD NOTHINGS - "Here and nowhere else"
Mezz'ora di claustrofobico pop rumoristico a caccia di un chorus da scordare, di un anthem da
gridare nella perfetta solitudine di una stanza mentre poghi con te stesso godendo del deprimerti.
Eco albiniana, reminiscenze Pixies, lezione Husker Du in salsa emo: distruttiva frenesia da post-teenage-angst
dove tutto è velocità, elettricità, disintegrazione contro il muro di quella stessa stanza, vuota e buia
(brano migliore: Just see fear)
4. EDDA - "Stavolta come mi ammazzerai?"
La musica di Edda è un incubo reale, il luogo esatto dove il sogno si dissolve. Ma i
sogni non esistono, le bugie sì, e fango è il mondo. Nemmeno i buoni esistono più, estinti a mazzate
secoli fa: chi sopravvive è malvagio, corrotto, deviato e assassino. E il genere umano è un bestiario di varia deformità
che si regge sull'inganno. Come un remake di "Trainspotting", ma senza redenzione
(brano migliore: Saibene)
5. SLEAFORD MODS - "Divide and exit"
Gonfi di birra e disgusto, oltre la concezione stessa di hip-hop, due scorretti quarantenni
dell'East Midlands armati solo di un microfono e di un laptop rimodellano il talkin'blues in nuovo
virulento conio smaccatamente british: schifato delirio da speaker's corner, beffa e sputo,
poco importa in faccia a chi. Pura violenza compressa: è il nuovo punk, ladies & gentlemen
(brano migliore: Tied up in Nottz)
6. WHITE LUNG - "Deep fantasy"
Questo disco non esiste: dura ventidue lerci minuti nei quali la signora Mish Way, tinta bionda canadese, infila
sguaiata dieci tracce sparate come proiettili verso il nulla, una specie di finto punk post-litteram, quasi
Courtney Love ci avesse ripensato e stesse ancora latrando sul palco come ai bei vecchi tempi di "Doll parts".
Bolla di sapone, effimera come il collage in copertina, ma il naufragar m'è dolce in cotanto frastuono
(brano migliore: Snake jaw)
7. OUGHT - "More than any other day"
Spiazzante ibrido nevrotico post-tutto, tra accenni free ed echi citazionisti, un trompe-l-oeil
nel quale sembra di ascoltare i Talking Heads che interpretano gli Slint
o forse gli Slint che interpretano i Talking Heads, o soltanto dei redivivi Gang of Four in tour col Pop Group.
Cervellotico Mastermind dalle infinite possibilità, con colori giusti al posto sbagliato ed un imprevedibile finale di partita
(brano migliore: Pleasant heart)
8. SUN KIL MOON - "Benji"
Dall'immaginario volo chagalliano di "Lost verses", con la sua vista dall'alto sul brulicare d'anime della Terra Desolata,
il Dottor Morte atterra in questa valle di lacrime tra fantasmi presenti e futuri,
fiumi di parole e voci che sussurrano storie impastando ricordi, dettagli insignificanti mai così importanti.
Disco che sopprime la frontiera tra vivi e morti, in attesa dell'inevitabile
(brano migliore: Truck driver)
9. LA DISPUTE - "Rooms of the house"
Ricordare al mondo il male di vivere: su questa pietra Jordan Dreyer ha fondato la sua missione e costruito la sua chiesa,
fatta di dolore, sconfitte, perdite e di quel poco che ancora rimane, in un soffocante emocore da Judgement Day.
Nel nulla che la speranza è divenuta riecheggia un ultimo grido, mentre diapositive senza profondità di una, nessuna,
centomila vite scorrono su uno sfondo senza colore, senza lievità alcuna, senza via d'uscita
(brano migliore: First reactions after falling through the ice)
10. SOL RUIZ - "Reasonable diva"
Può permettersi qualsiasi cosa questa istrionica, sgraziata cubana di Miami che abita a Torino, anche di cantare
quando ne ha voglia, senza applausi o fischi. Mezza Gloria Estefan, mezzo Manu Chao, tra fiati e
percussioni allestisce un baraccone da balera di latinoamericano interpretando con piglio picaresco la sua
personale patchanka, repertorio apolide tra onde mariachi e gazzarra gitana
(brano migliore: Thanks for the pain)
11. NOTHING - "Guilty of everything"
Sottraete ai My Bloody Valentine l'intento art-rock e sostituitelo con un sofferto, compassato esistenzialismo
autolesionista: se Kevin Shields e Bilinda Butcher avessero avuto parole di non-vita eterna,
sostanza oltre la forma, forse si sarebbero chiamati Nothing. Caos shoegaze di spiriti inquieti,
mesta confessione che svela e nasconde abissi, sferragliare d'anime che cela spettri in una fitta nebbia elettrica
(brano migliore: Guilty of everything)
12. ELENI MANDELL - "Let's fly a kite"
Deliziosa artista d'altri tempi, tra charleston e swing leggero d'antan, Eleni è l'antitesi della caccia alla modernità.
Il suo gorgheggiare flautato è una carezza in bianco e nero, sospinta da
un pop lieve ed elegante che scalda e rasserena come una coperta di Linus. E' la vicina di casa alla cui porta
bussare timidamente, prima che ti apra sorridente e ti offra tutto lo zucchero che vuoi
(brano migliore: Anyone like you)
13. SIEBEN - "Each divine spark"
Un uomo sta solo sul cuore della terra, armato di un violino e della sua favella. Ricorda il pomposo narrare
di David Tibet come lo slancio teatrale e melodrammatico di Marc Almond, ma aggiunge qualcosa di teneramente
fiabesco, teatrale, ancestrale. Propaggine ineludibile di un'arte di toccante intensità, il violino - legno animato - si
dota di una propria voce, quella che prolunga la magia oltre la canzone
(brano migliore: Sleep, Clara bow)
14. MARIANNE FAITHFULL - "Give my love to London"
La signora cantava il blues, e il resto mancia. Arrochita da innumerevoli lustri trascorsi su un red carpet tutto suo,
la solitaria icona di un malevolo spleen austero moltiplica i talenti portati in dono da penne illustri, intonando
a mezza voce, strascicata e rigonfia di vita andata, un funereo carme sepolcrale. In una elegia catacombale
che si fa più opprimente ad ogni traccia, la vestale si accinge al sacrificio avvolta nel suo alone di mistero
(brano migliore: Deep water)
15. GIARDINI DI MIRO' - "Rapsodia satanica"
Musica per immagini nata come soundtrack retrospettivo, espressione di bellezza tanto intensa da
poter prescindere dallo scorrere del film. Musica rarefatta da lasciar scivolare, suadente ma non
del tutto inoffensiva, desolato rallentamento in minore che impiega quarantacinque minuti per insinuarsi
sottopelle, subdola stasi e maestria cristallina, poesia che non ha bisogno di parole
(brano migliore: I)
16. SICK TAMBURO - "Senza vergogna"
C'era una volta un ragazzo che come me amava il punk slabbrato e sghembo, verbo malato e
irridente, tossico e scanzonato. Il ragazzo non c'è più, resta la sua versione adulta, disillusa,
disincantata, quella che ha fatto scoppiare la bolla, quella che ha scoperto l'inganno ultimo.
Non c'è più nulla da ridere, ammesso che ci sia mai stato
(brano migliore: Qualche volta anch'io sorrido)
17. SAINT LAWRENCE VERGE - "This is the way"
Tre immaginari ragazzi di Modena ridisegnano in fogge inusitate il loro diabolico piano B. Crollate le barriere,
soppresso anche il concetto stesso di psichedelia, questi invisibili pionieri varcano la soglia di un nuovo mondo,
creando qualcosa che è forse troppo grande e troppo in là addirittura per loro stessi, un ponte invisibile tra post-rock
e musica classica, utopia ove ogni riferimento a generi veramente esistiti è puramente casuale
(brano migliore: The absence room)
18. DAMIEN RICE - "My favourite faded fantasy"
Damien Rice è un uomo dolce e torturato, voce suadente che sa farsi addolorata, tormento temperato da
una tenerezza che sfiora la melassa. E' prolisso, inconcludente e zuccheroso, ma sa far crescere una canzone
da un'idea, sa ingigantirla fino alla deflagrazione, e poi da capo, come enormi onde in una tempesta, tra quiete
e paura del peggio. Una carezza ci salverà - forse - prima del prossimo schiaffo
(brano migliore: It takes a lot to know a man)
19. CLAP YOUR HANDS SAY YEAH - "Only run"
Alec Ounsworth è un ex-ragazzo rimasto solo, con le sue idee impastate e quel velo di tristezza a raccontarle.
Usa armi spuntate, inciampa qua e là in pavide tentazioni elettroniche, senza scordare ciò che è: un'anima
fragile e melanconica che dispensa piccole gemme di pop imbastardito a metà strada tra indecisione e
maturità, sempre in punta di voce, in bilico tra molti dubbi e ben poche, dolenti certezze
(brano migliore: Only run)
20. CHRISTOPHER OWENS - "A new testament"
Forse l'estroso folletto biondo che fece dei Girls qualcosa di grande, anche se per una breve stagione di
gloria, ha perso da qualche parte la voce, l'ispirazione, un certo senso indie del fare musica, ma
conserva intatto quel misto di disimpegno e fanciullesca ingenuità. La virata è decisa e discutibile, tra country
leggero ed un'aria retrò da Happy Days: roba da poco, ma il genietto è vivo, e di cosa canti francamente me ne infischio
(brano migliore: Nothing more than everything to me)