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news - rassegna stampa

28/10/2013   LOU REED
  E' morto improvvisamente il poeta visionario di 'Walk on the wild side'

Uno dei più grandi rocker degli ultimi cinquant’anni, vera araba fenice, perché dato per morto tante volte e poi puntualmente risorto, a questo giro, no, non ce l’ha fatta: ora, può andare davvero sul lato «selvaggio», l’ignoto, come cantava in un brano che diventerà manifesto di una generazione «Walk on the Wild Side». Lou Reed è morto a 71 anni, secondo quanto è rimbalzato inizialmente dai siti americani per poi diffondersi viralmente in tutto il mondo. L’eroe maudit dei Velvet Underground aveva subito un trapianto al fegato nel maggio scorso e, proprio per delle complicazioni in seguito all’operazione, è deceduto a Southampton, il sobborgo newyorchese dove si era trasferito con Laurie Anderson, compagna di una vita. Nato nel 1941, Lou, figlio della buona borghesia ebraica di New York, si diede una missione fin da subito, nel Village ribollente degli anni '60: scandalizzare proprio la crema benpensante da cui proveniva. Come? Introducendo nel rock «stardom», tutto sommato convenzionale in ambito di genere, il concetto di diversità, le storie negate dei loser, i tossici e gli omosessuali. E alzando l’asticella, l’arte applicata alla musica, non più una roba da sempliciotti bevitori di birra. Andy Warhol s’innamorerà dell’estro di questo ragazzotto e si inventerà con lui i Velvet Underground. Dal 1966, solo quattro anni e quattro album, ma una band che scriverà capitoli fondamentali della storia del rock con brani come «Sweet Jane», «Venus in Furs » o «Pale Blue Eyes». A Lou i Velvet però non bastano e negli anni '70 si mette in proprio. Per diventare ispiratore assoluto e nume tutelare del punk newyorchese: voce di carta vetrata, al limite del monocorde, chitarra devota all’essenziale, nemico degli arzigogoli in voga allora, gli assoli inutili e le tastiere oppressive. E con allievi d’eccezione come i Ramones o Patti Smith. Nichilista e autodistruttivo Lou, schiavo senza pietà dell’eroina, sembra dover morire giovane come tanti altri eroi della sua generazione. Non accade, nonostante disastrose performance e crolli verticali: Reed arriva miracolosamente indenne agli anni '80, non senza lasciare per strada almeno tre capolavori: «Transformer» (con la succitata «Walk On The Wild Side» e l’altrettanto splendida «Perfect Day»), « Berlin» e «Coney Island Baby». Lou decide dunque di invecchiare. E piuttosto bene, rispetto ad altri coevi. Non si spende troppo in fatiche discografiche - una decina negli ultimi trent’anni, il più recente «Lulù», la bizzarra collaborazione con i Metallica - piuttosto non si risparmia sul palco: l’abbiamo visto tante volte in Italia, l’ultima a memoria nel 2011, all’Arena. Solo lì si sentiva davvero a suo agio: celebre per essere un mangia-giornalisti (sì e no, il monosillabo come opzione preferita), davanti al pubblico ritrovava la sua anima. E non tradiva, scegliendo di omaggiare sé stesso e chi lo amava, senza per forza dover sfregiare il passato. Ora, quasi non credi che sia scomparso: come fa a morire chi della resurrezione ha fatto un’arte? (Corriere.it)